C’è un passo del programma elettorale col quale Donatella Tesei ha vinto le elezioni regionali dell’ottobre 2019 che, nel caso in cui l’avessero letto, potrebbe essere andato di traverso ad alcuni dei suoi sostenitori, quelli dell’ala dura e pura, potremmo definirli, che hanno spesso caricaturizzato l’Umbria come se fosse una succursale dell’Unione sovietica anche quando l’Unione sovietica non esisteva più. Vi si legge che «occorrono progettualità capaci di osare, coraggiose, innovative, che sappiano restituire alla nostra regione quella capacità che ormai qualche decina di anni fa, universalmente, ci veniva riconosciuta». Il riferimento termina qui, di più la futura governatrice a trazione leghista non poteva concedere ai comunisti che governarono quella stagione. Ci piace pensare che sia diretto all’Umbria che abbatteva i manicomi e liberava le persone che vi erano recluse non lasciandole a se stesse ma facendosi carico di inserirle nel tessuto sociale; all’Umbria che ha garantito anche ai figli degli operai di diventare dottori; all’Umbria dei consigli di fabbrica in cui i lavoratori prendevano parola sull’organizzazione del loro lavoro dopo aver solo subìto per decenni; all’Umbria che inventava modelli di mobilità alternativa a quei tempi rivoluzionari, come le scale mobili all’interno della Rocca Paolina di Perugia (qualcuno gridò allo scandalo per la commistione blasfema che si andava a fare tra antico e moderno); all’Umbria delle donne che premevano per la loro liberazione. La spinta al futuro veniva da una società e da classi dirigenti che il futuro lo sapevano immaginare. Poi il potere è diventato fine in sé, ci si è ripiegati in un’ordinaria amministrazione statica per essere in seguito costretti a tradurre in pratica i tagli alla spesa imposti da un’Europa cieca e da governi nazionali – da Monti in giù – che hanno assunto l’aspetto del curatore fallimentare. E addio futuro.
Il baratro e la possibile ripresa
Oggi, per uno di quei curiosi paradossi della storia che a volte si verificano, la spinta al ritorno al futuro per l’Umbria potrebbe arrivare proprio da un’Europa che si è come risvegliata in seguito allo shock provocato dal coronavirus. Nei documenti della Commissione europea che preparano e accompagnano il “Recovery fund”, poi rinominato “Next generation”, si individuano due polarità contrapposte. La prima è quella negativa, e consiste nella previsione della perdita di Prodotto interno lordo (Pil) a livello regionale fatta dal Joint Research Centre (Jrc), il centro studi di cui si serve la Commissione per elaborare le proprie proposte. Il Jrc colloca l’asse Umbria-Marche tra i peggiori a livello continentale. Qui si prevede che senza interventi di politiche pubbliche la perdita di Pil in seguito all’emergenza da pandemia potrebbe essere tra il 22 e il 25 per cento. La performance peggiore. Pari solo a quella di alcune regioni degli stati più orientali dell’Unione, come si può vedere nella cartina tratta da uno dei documenti che la Commissione ha inviato al Parlamento europeo. Il Pil non è la Bibbia, e ci sono sicuramente modi diversi e più a misura umana per testare lo stato di benessere di un paese. Di certo però, lo scenario che emerge è fortemente depressivo, al limite della catastrofe sociale.
- La previsione della Commissione europea sulla perdita di Pil nelle regioni europee in seguito alla pandemia e in assenza di politiche pubbliche (fonte Ue)
La transizione richiesta (e necessaria)
C’è però anche una polarità positiva. O almeno potenzialmente tale. Per prevenire lo sconquasso l’Ue sta apprestando appunto “Next generation”, un piano che porterà subito allo stanziamento di 750 miliardi, che arriveranno in seguito a quasi 2 mila. E i fondi verranno assegnati in misura maggiore agli Stati e alle regioni giudicati più vulnerabili, poiché, secondo quanto si legge in una delle comunicazioni della Commissione al Parlamento europeo, «growing divergences contradict the European ideal and our common objectives, and could undermine the European integration process» [crescenti squilibri contraddicono l’ideale europeo nonché i nostri stessi comuni obiettivi e possono minacciare il processo di integrazione, ndr]. Alle istituzioni europee interessa insomma una ripresa senza eccessive divergenze fra i diversi stati che compongono l’Unione, poiché questa è vista appunto come un’Unione di interdipendenze. Anzi, pare di capire che gli interventi vorrebbero essere volti anche a colmare, almeno parzialmente, le differenze pre-coronavirus che a lungo andare potrebbero minare l’Unione tutta, non i singoli stati. Ora: l’Italia, insieme a Spagna, Grecia e Croazia è tra le economie giudicate più a rischio dalla Commissione relativamente alle conseguenze della pandemia; e l’Umbria, come si vede nella cartina, è una sorta di punto nero all’interno di uno Stato giudicato già fragile. Quindi c’è possibilità di attrarre fondi. Ma a una condizione: tornare al futuro.
Il verde, il digitale e lo stato di partenza
C’è una locuzione che ricorre con frequenza quasi maniacale nei documenti Ue che riguardano “Next generation”: «Transizione verde e digitale». Cioè: i fondi non verranno erogati a caso, ma in base a programmi che premieranno un vero e proprio passaggio a economie in grado di garantire la riduzione delle emissioni nocive e la realizzazione di “città nuove” che siano capaci di coniugare tecnologia e ambiente per un nuovo ecosistema. «La sfida decisiva per questa generazione – si legge in uno dei documenti che accompagnano il piano – resta la duplice transizione verso un’Europa verde e digitale, un punto che trova riscontro in tutte le proposte della Commissione. Investire in un’ondata di ristrutturazioni su vasta scala, nelle energie rinnovabili e nelle soluzioni basate sull’idrogeno pulito, nei trasporti puliti, in un’alimentazione sostenibile e in un’economia circolare e intelligente ha un enorme potenziale di stimolare la crescita economica europea. Il sostegno dovrebbe essere coerente con gli obiettivi climatici e ambientali dell’Unione». E ancora: «Occorrerà investire in una maggiore e migliore connettività (…) in una maggior presenza industriale e tecnologica in comparti strategici della catena di approvvigionamento digitale».
Eccolo, il ritorno al futuro. E i dati ci dicono quanto ce ne sia bisogno in un’Umbria chiamata a cambiare decisamente passo. La transizione richiesta dall’Europa è innanzitutto da compiere nelle teste di classi dirigenti che finora, quando è andata bene, hanno garantito un’ordinaria amministrazione che da anni non è più al passo con le esigenze di una regione rimasta pesantemente indietro. E quando si parla di classi dirigenti non ci si riferisce solo alla classe politica. Per operare una transizione verde e digitale, il prerequisito è una forte spinta a innovare. Bene: nel 2016, ultimo dato Istat disponibile, la spesa delle imprese umbre per innovazione è stata di 5,3 euro per addetto (grafico 1). Un dato che colloca la regione al quart’ultimo posto, davanti solo a Valle d’Aosta, Calabria e Sardegna.
Grafico 1
- (Fonte: Istat)
Ancora. Per fare innovazione occorre investire in ricerca e sviluppo. Nel 2017 in questa regione sono stati spesi complessivamente 214,5 milioni nel settore, lo 0,9 per cento del totale del paese, mentre l’Umbria rappresenta l’1,2 per cento nella produzione di Pil. Dal settore privato sono stati investiti 91,8 milioni, lo 0,6 per cento del totale italiano, mentre dalle Università è arrivata la quota più cospicua, oltre 107 milioni, che rappresentano l’1,9 per cento del totale nazionale investito da quegli organismi, ben oltre il peso umbro in termini di Pil. Una disparità che descrive bene la “capacità di futuro” del sistema imprenditoriale regionale. Che viene confermata da un altro dato: le imprese umbre sono sedicesime in Italia per numero di addetti che al lavoro utilizzano almeno una volta a settimana il computer (grafico 2). Segno che si è concentrati su produzioni e processi arretrati rispetto al resto del paese. E che dire poi del fatto che nonostante i programmi e i proclami, ancora oltre 300 mila persone in Umbria vivono in zone non coperte dalla banda larga per connettersi a Internet?
Grafico 2
- (Fonte: Istat)
L’ambiente dimenticato
C’è insomma un’altezza delle sfide alla quale pare corrispondere un livello regionale complessivamente depresso e al momento impreparato. E il fatto è che l’Umbria avrebbe un disperato bisogno della «transizione verde e digitale» indicata dall’Ue. Per questo i fondi di Bruxelles sarebbero da benedire come l’acqua nel deserto. A proposito di acqua ad esempio, l’Istat informa che nel 2018 in provincia di Perugia è andato disperso il 45,1 per cento del volume immesso in rete. A Terni lo spreco sale a oltre il 52 per cento. La media di dispersioni italiana, che peraltro non è affatto bassa, si ferma al 37,3 per cento. Se si passa alla qualità dell’aria, sempre nel 2018, le cinque centraline di rilevamento che sono collocate a Terni hanno tutte registrato una concentrazione media annua do Pm10 superiore ai trenta microgrammi per metro cubo. Per capire la portata del problema, la concentrazione “ideale” sarebbe tra i dieci e i venti microgrammi per metro cubo, quella da non superare per legge è di quaranta. Se non bastasse, la centralina di Borgo Rivo, quartiere della periferia nord della città, nello stesso anno ha rilevato per 73 giorni il superamento del valore limite di 120 microgrammi per metro cubo di ozono, quella del quartiere Le Grazie, periferia sud, ha registrato la stessa criticità per 65 giorni. Dati che, al di là degli “strutturali” produttori di inquinamento che insistono sul territorio da decenni, fanno il paio con un tasso di motorizzazione che in questa regione è ben superiore alla media nazionale. Se in Italia nel 2018 hanno circolato mediamente 614 veicoli ogni mille abitanti, a Terni quel dato saliva a 669, e a Perugia a 750. Numeri in costante salita dal 2000, quando nei due capoluoghi si contavano 679 (a Perugia) e 635 (a Terni) veicoli ogni mille abitanti. Sintomo di quanto sia stato fatto poco in tema di offerta di mobilità alternativa. E dire che per un curioso gioco dei contrari però, al salire del numero dei veicoli in circolazione è diminuita la produzione di energia elettrica da fotovoltaico, quella pulita cioè, e gratuita per di più. Dal 2015 al 2018 a Perugia è calata del 4,3 per cento, a Terni addirittura del 7,7 per cento. Un progresso all’indietro.
Forse la transizione non basta, serve una rivoluzione
Lo stato dell’innovazione, della ricerca e i dati delle matrici ambientali ci dicono che il punto di partenza dell’Umbria è così basso che, per dimensioni, quella che l’Europa definisce «transizione verde e digitale» in questa regione dovrebbe assumere i contorni di una vera e propria rivoluzione. Ora ci sarebbero i soldi a portata di mano. Ma i soldi da soli non bastano. Occorre una visione che sia di sistema: per tentare di superare le criticità ambientali e di arretratezza tecnologica che abbiamo cercato sommariamente di documentare non bastano una pista ciclabile e qualche pannello fotovoltaico in più. Occorrerebbe mettere mano a un progetto complessivo che faccia perno su un’offerta pubblica di trasporto pulito, su nuove modalità di spostamento e di lavoro, su nuovi modelli di produzione e di consumo, su un’agricoltura pulita e vicina al consumatore finale, su un nuovo e sperimentale modo di fare formazione e di connettere il patrimonio delle due Università umbre col territorio; su un welfare che garantisca tutti affinché tutti si rendano consapevoli dell’altezza della sfida perché non costretti a dover guerreggiare quotidianamente col bisogno. Queste cose non vanno prese come compartimenti stagni, ma come capitoli interdipendenti di un libro che per l’Umbria è tutto da scrivere. L’inchiostro, cioè le risorse, non mancherebbero. Quello che pare invece sia ancora da ricercare è una consapevolezza dell’altezza della sfida da parte delle classi dirigenti, o la forza per un loro ricambio.
La forza necessaria
Per tornare al programma della presidente, seppure lo sforzo di usare la parola “innovazione” c’è, pare mancare la visione di sistema. A partire dal fatto che economia e ambiente sono capitoli distinti e separati in quel programma, il che non è una buona premessa per la transizione verde e digitale necessarie ad attrarre fondi e a praticare l’innovazione: l’economia è ambiente, e l’ambiente è economia, questa sarebbe la prima consapevolezza da acquisire se si volesse davvero la transizione verde. C’è invece, in quel programma, una visione quasi messianica dell’impresa come generatrice naturale di benessere. «Vi è bisogno di politiche che rendano più conveniente e più semplice investire in Umbria nei diversi settori industriali. Vi è bisogno di un governo regionale che rappresenti fortemente gli interessi dell’industria umbra in Italia ed in Europa», si legge. I dati mostrano invece come sia necessario che gli investimenti debbano essere di più e diretti verso settori innovativi e puliti e di come sia importante che una buona parte dell’industria umbra cambi passo, più che di «rappresentarne gli interessi».
Se si passa all’opposizione, questa oltre a pagare gli errori di un recente passato che definire disgraziato è un eufemismo, pare fare fatica a connettersi con le parti migliori di una società che pure in Umbria non mancano, come mostra – a titolo di esempio – la proposta di legge popolare sugli ecodistretti che comitati ambientali, Isde (l’Associazione dei medici per l’ambiente) e un pezzo di Università, la Law Clinic della professoressa Maria Rosaria Marella, stanno portando avanti.
Forse ci potrà salvare un’Europa che pare voler cambiare verso, finalmente. O forse per l’Umbria passerà l’ennesimo treno davanti a stazioni chiuse di cui la Ferrovia centrale umbra è ottima e spietata metafora. Lo scenario che si aprirà dipende da noi, ognuno per la quota che gli spetta; dipende dalle classi dirigenti e da una società nel suo complesso che quando sapevano guardare al futuro hanno fatto grandi cose in questa regione.