Si legge nel Rapporto italiani nel mondo 2019 curato dalla Fondazione Migrantes che gli iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) alla data del 1 gennaio 2019 sono 5.288.281; tenendo conto del fatto che molti italiani all’estero non si iscrivono all’Aire e che continuano però a registrarsi massicci movimenti migratori (nel rapporto si indica che dal 2006 al 2019 la mobilità italiana è aumentata del 70,2%), sembra proprio che quel numero sia relativo e destinato a salire.
Un dato significativo che emerge scorrendo il rapporto è che la mobilità interessa prevalentemente i giovani tra i 18 e i 34 anni, che rappresentano il 40,6 per cento di chi emigra, e la fascia di età immediatamente successiva (35-49) che rappresenta il 24,3 per cento del totale degli emigranti.
Il dispendio delle giovani energie a favore di altre realtà nazionali continua, dunque, la sua inesorabile crescita. Bisogna tener conto e sottolineare come fanno gli studiosi che hanno editato il rapporto in questione che la mobilità in sé non è dannosa, a patto che sia circolare, cioè che promuova lo scambio tra diverse realtà. Infatti, all’inizio, quello che spinge molti laureati a intraprendere esperienze lavorative fuori dal nostro paese è la possibilità di poter ampliare il proprio bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche. Il problema sorge poi dal fatto che la maggior parte degli studenti decide di non rimpatriare. Questo perché dopo aver sperimentato le condizioni lavorative dei paesi esteri, i giovani laureati trovano le offerte del mercato lavorativo italiano nettamente inferiori alle loro competenze. Basta osservare i dati che mostrano che in Italia il tasso di occupazione dei giovani italiani è del 16,9 per cento, mentre all’estero è del 50,8 per cento.
Questo fenomeno è già molto frequente in regioni come Lombardia, Lazio e molte delle regioni del Sud. In Umbria la fuga dei laureati è un problema ugualmente serio che però crea conseguenze molto più gravi soprattutto per due ragioni: il calante tasso di natalità e la mancanza di infrastrutture adeguate a poter offrire un futuro.
Riferendoci a dati più recenti sullo stato del fattore di natalità in Umbria, secondo una recente indagine Istat il tasso di natalità della regione nel 2019 è stato stimato essere del 6,3 per cento, inferiore a quello nazionale del 7 per cento, mentre il tasso di mortalità è dell’11,6 per cento (quello nazionale è al 10,6 per cento) e il tasso di crescita è del -5,3 per cento (nazionale -3,1 per cento). Si tratta di dati che dimostrano quanto precaria possa essere la situazione dell’Umbria: da un lato c’è una maggioranza di popolazione anziana e dall’altro non si dispone di un “sistema” attrattivo per i neolaureati. Negli ultimi dieci anni è crollato del 21,9 per cento il numero di giovani tra i 25 e i 40 anni residenti in questa regione. E ancora, l’Umbria registra l’1,3 per cento di partenze per l’estero nell’ultimo anno, e sul totale nazionale si posiziona tra le regioni col più basso numero di espatri insieme a Molise e Valle d’Aosta. Ma il dato non dovrebbe comunque far gioire, perché contribuisce ugualmente a creare quel circolo vizioso di cui l’Italia sembra eternamente vittima.
Ma proprio dall’Umbria e da persone che si impegnano concretamente per contrastare il fenomeno della fuga dei cervelli, partono iniziative che vale la pena trattare. Brain Back Umbria è un progetto creato e gestito dall’Agenzia Umbria Ricerche (Aur) con le risorse del Fondo sociale europeo (Fse) che si è proposto di presentare una strategia per attirare nuovamente le persone di talento e dar loro la possibilità di attuare le loro idee in Umbria. Dopo aver studiato il fenomeno della fuga dei cervelli e aver indagato, attraverso un questionario, le ragioni che spingono moltissimi giovani a lasciare l’Umbria, è stato pubblicato un bando per la creazione di startup, fornendo così uno strumento concreto per favorire il rientro dei giovani emigrati. Sono così nate sedici startup in diversi settori, dalla sanità alla cultura fino alla meccanica. Attraverso la pubblicazione di due inviti a presentare proposte di idee imprenditoriali si è voluto incoraggiare il ritorno di giovani espatriati che vivevano all’estero da almeno due anni con sovvenzioni fino a ventimila euro per coprire spese di avviamento, consulenza, marketing e investimenti.
Complessivamente il progetto ha goduto di un investimento di 800 mila euro (di cui 350 mila di provenienza Ue) e ha ricevuto il premio Unione degli Italiani nel mondo 2013. Da qui altre regioni italiane hanno iniziato a lanciare iniziative simili, mentre le idee sviluppate nell’ambito di Brain Back Umbria sono state attuate anche in progetti europei.
Ma chi c’è dietro le quinte di un progetto così all’avanguardia? O meglio, chi ha avuto l’idea e ha fatto di tutto per attuarla? È iniziato tutto con Anna Ascani, direttrie dell’Agenzia Umbria Ricerche ora in pensione e responsabile scientifico del progetto. Ascani spiega che il progetto è stato avviato nel 2007 e che da allora ha avuto tre rifinanziamenti fino ad arrivare al 2015, quando è stato compilato e pubblicato un rapporto che ne ha fatto il resoconto puntuale.
«La prima mossa importante – dice Ascani – è stata quella di capire chi va all’estero e soprattutto perché, quindi una prima indagine si è posta l’obiettivo di studiare il fenomeno della fuga dei cervelli. Per poterlo studiare e capirne i protagonisti è stato strutturato un questionario che indagasse le motivazioni della partenza e se c’era la voglia di tornare a casa e a quali condizioni. L’esperienza all’estero va benissimo – prosegue la ex direttrice Aur – e anzi, arricchisce il curriculum vitae e il proprio bagaglio di esperienze, ma il problema è che, nella maggior parte dei casi, i giovani che decidono di varcare la soglia italiana, poi non vi fanno ritorno». Alla domanda sull’eventuale intenzione di tornare in Umbria, la metà del campione si è espressa negativamente, ed è emerso che questo è dovuto soprattutto all’eccessiva burocratizzazione tutta italiana ma anche alla mancanza di meritocrazia e di risorse per poter avviare un’attività d’impresa.
Ma il punto non è solo far rientrare i ragazzi che decidono di partire ma anche quello di creare una rete di contatti con gli espatriati che possa funzionare da supporto. Ascani riferisce che «grazie alla rete di contatti che si è riusciti ad instaurare, che comprende ambasciate e associazioni, si è arrivati, dall’avvio del progetto, a circa settemila contatti». Si tratta di un numero importante perché significa che le persone che vanno via ci tengono a non troncare il rapporto con la terra natale, anche nell’eventualità di un possibile ritorno, ed è importante quindi che sappiano che possono trovare supporto. Hanno contribuito allo sviluppo di tali contatti anche i tre incontri con le aziende (businnes visits) che hanno favorito la nascita di partnership con aziende umbre, medie e piccole incentrate sui settori del tessile, dell’agroalimentare e del turismo e che hanno contribuito a creare dei veri e propri ambasciatori umbri all’estero.
Quindi le persone che hanno deciso di tornare in Umbria e di mettersi alla prova, con l’aiuto di Brain Back Umbria, hanno dato vita a sedici startup, delle quali si legge anche nel rapporto edito nel 2015. Ma quante di queste attività si sono sviluppate? L’ex direttore dell’Aur rivela che che in realtà le startup sono state venti; e dice tre o quattro sono state riconosciute come eccellenze e che, avendo superato la soglia iniziale, proseguono adesso in maniera autonoma il loro cammino. Tra queste la Umbria Kinetics (UK) di Foligno, nata dall’idea di un ingegnere aerospaziale che all’uscita del bando viveva negli Stati uniti. L’azienda ad oggi vanta collaborazioni con l’Aprilia e l’Honda. Ascani traccia un bilancio soddisfacente perché, spiega «non è affatto facile e scontato avviare delle startup che poi abbiano successo nel lungo periodo.
Quindi abbiamo ancora bisogno oggi di Brain Back? E soprattutto, il progetto è ancora attivo? Come prosegue? Ascani spiega che il bando è attivo e che se si cerca bene sul sito della Regione Umbria lo si trova, quindi il progetto di per sé continua ma solo come creazione di imprese. La differenza essenziale tra il progetto iniziale e quello attuale è che quando è stato ideato e nei suoi primi anni di vita si mirava soprattutto a fare rete e mantenere attiva tale rete, ma anche a supportare tutto il processo per l’avvio dell’impresa, cosa che ad oggi è venuta a mancare. Il progetto, nella sua fase iniziale disponeva anche di un sito internet dove si potevano avere tutte le informazioni necessarie, che oggi però non esiste più. In pratica adesso Brain Back è diventato un bando prettamente burocratico che prevede la creazione di imprese soprattutto nel settore altamente tecnologico, mentre prima c’era letteralmente di tutto, bastava solo avere una buona idea. Insomma era fondamentale e significativo il supporto ai giovani che volessero rientrare, a prescindere dal settore di attività. Allo stato attuale del bando si è candidata una sola persona mentre all’inizio del progetto se ne contavano circa trenta, la differenza è significativa.
È che Brain Back poggiava su basi esistenziali, si potrebbe dire. La stessa Ascani che ha curato il progetto prima di poter rientrare in Italia ha lavorato all’estero e ha avuto un nonno che era stato a sua volta emigrato. Allo stato attuale Ascani, come ex direttrice dell’Aur e responsabile di Brain Back Umbria, si dice vivamente speranzosa che chi è arrivato dopo di lei prenda le redini del progetto e faccia meglio, altrimenti di questo passo si perderà tutto il lavoro svolto. Lei nel frattempo non si ferma, e sta mettendo a punto un itinerario delle abbazie benedettine presenti in Umbria, perché «è necessario – dice – valorizzare nella giusta maniera il proprio territorio e far conoscere ai cittadini e non le possibilità che l’Italia ha da offrire». Tornando a Brain Back, si tratta dell’unico progetto che ha cercato di arginare la fuga dei cervelli e nonostante i risultati non trascurabili raggiunti andrebbe ulteriormente arricchito, nonostante il percorso ingaggiato sembri andare in direzione inversa.