Dunque ci siamo. Alla storia più che centenaria delle Acciaierie ternane si approssima una nuova svolta; il subentro, probabile, di una nuova proprietà, dopo quella tedesca che abbiamo avuto, con tanto di bandiere giallo nere in viale Brin, dagli anni ‘90 ad oggi. Che Thyssen-Krupp volesse liberarsi di Ast, era chiaro da tempo. Hanno atteso di far migliorare risultati e valori patrimoniali per vendere meglio il gioiello italiano degli acciai speciali. Per capire che aria tirava, a Duisburg ed Essen, bastava leggere uno degli ultimi report non finanziari della casa madre Thyssen-Krupp, dove si poteva leggere, a proposito di Ast, quanto segue: «I siti produttivi della nostra unità Ast sono esposti al rischio d’interruzioni del business e a perdite di produzione. Stiamo contrastando tali rischi, principalmente, per mezzo della manutenzione preventiva, modernizzazione e investimenti. A meno che l’Unione europea non imponga misure di salvaguardia contro le importazioni di acciaio inossidabile dall’Asia, rischi legati al prezzo cresceranno in particolare per Ast». Mentre noi continuiamo a dire che le produzioni di acciai inox e speciali di Ast e ciò che resta delle seconde lavorazioni sono asset industriali strategici per l’Italia, la proprietà tedesca, il suo azionariato assai variegato, pensano che sia un semplice business che non gli dà i risultati sperati.
Affidare un’attività ritenuta strategica per la propria nazione a gruppi industriali e finanziari stranieri, appare un’aspirazione retorica ed una contraddizione in termini. In realtà Ast, con la privatizzazione dei primi anni ‘90 e la vendita ai tedeschi è uscita dalla dimensione storica della strategicità nazionale, per entrare pienamente nelle logiche del mercato, non solo europeo ma globale; dove tutto si compra, si vende o si chiude in base a meri calcoli di convenienza, spesso di breve periodo. In una fase di transizione come l’attuale, con l’esigenza incombente della decarbonizzazione anche della siderurgia, compresa quella da forno elettrico, come quella ternana, le sorti della nostra fabbrica sono legate agli investimenti in innovazione produttiva e ambientale che dovranno necessariamente essere fatti, nei prossimi dieci anni. Terni, staccandosi da Tks, non avrà più un vero centro di ricerca, come ai tempi del Centro sviluppo materiali (Csm). Se la nuova proprietà dovesse restare europea si potrebbe confidare sui rapporti di collaborazione con altre strutture di ricerca e trasferimento tecnologico in Italia e in altri paesi europei, come l’Agenzia europea Estep, per l’innovazione ed il trasferimento tecnologico in siderurgia. La dirigenza attuale di Ast si è (giustamente) vantata di aver tagliato 30 mila tonnellate di Co2, cioè del micidiale gas ad effetto serra, dalle sue emissioni. Risultato apprezzabile ma nulla sinora è stato detto su come tagliarne almeno il triplo, entro il 2030, per rispettare l’obiettivo del taglio del 55 per cento delle emissioni totali (da Ast ne escono 300 mila tonnellate all’anno). Serviranno piani industriali d’innovazione più radicale e la capacità di accedere alle misure straordinarie di sostegno del “Green new deal” europeo. La città e la Regione, con le loro istituzioni, insieme alle forze sindacali e dell’ambientalismo dovranno seguire con attenzione questa fase di vendita di Ast, per capire in tempo, dai piani presentati, se nuova proprietà significa anche maggiore sostenibilità della siderurgia ternana: l’unico passaporto per andare nel futuro.
Foto dal profilo Flickr di Fabio Moscioni