Aumenta il consumo di psicofarmaci e si innalza il numero di casi in cui persone di tutte le età manifestano disagio psicologico. La pandemia è stata un’aggravante che è intervenuta su un quadro già complicato. Eppure la cura della salute psichica è la cenerentola della sanità pubblica e il disagio mentale subisce uno stigma ingiustificato
I genitori e il riscontro del disagio psicologico nei figli
La carenza di psicologi a scuola e nella sanità pubblica
Come riprogettare i piani sociali di zona?
Anziani: meno assistenza, più morti
Ragazzi e ragazze tra scuola e Dad
L’approccio bio-psico-sociale applicato alla comunità territoriale
Creare una cultura psicologica partendo dalla promozione della psicologia
Psicologia scolastica per educare alla vita
I genitori e il riscontro del disagio psicologico nei figli
La pandemia da covid-19 non ha solo cambiato le nostre abitudini quotidiane, ma ha anche portato a galla problematiche spesso nascoste dalla vita frenetica a cui siamo sottoposti normalmente. Un numero crescente di uomini e donne si è trovato costretto ad affrontare un disagio psicologico che è stato evidenziato dai blocchi forzati i quali oltre ad imporre una certa lentezza nel vivere hanno comportato aumento della precarietà, difficoltà nella condivisione di spazi casalinghi spesso non sufficientemente spaziosi e vivibili, un uso maggiore di ansiolitici e psicofarmaci, paura dell’altro. Ma se la depressione è il male del secolo (o della modernità) come spesso sentiamo dire, è anche vero che nell’ultimo anno scandito per lo più da slogan quali “andrà tutto bene”, “stiamo distanti oggi per riabbracciarci domani”, secondo i dati riportati dalla fondazione Italia in salute la metà della popolazione italiana ha riscontrato un maggiore nervosismo, tra questi la maggior parte sono giovani
In effetti c’è davvero da allarmarsi. David Lazzari, presidente del consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, lo dice in modo chiaro ai microfoni di Tutta la città ne parla (puntata del 19-04-21) programma radiofonico di Rai radio 3 (ascolta il podcast). Lazzari fa riferimento innanzitutto alla ricerca sopracitata effettuata dalla fondazione Italia in salute, secondo cui, inoltre, un numero esorbitante di genitori (l’82%) evidenzia un disagio psicologico nei figli. La pandemia ha un ruolo significativo in questo senso perché ha sollevato il velo su una situazione che in realtà è preesistente, infatti “il dolore psicologico non è come quello fisico, che viene manifestato e gridato, è un dolore spesso silente”, dice Lazzari, quindi difficile da decifrare e poi analizzare.
La carenza di psicologi a scuola e nella sanità pubblica
Ma come si approccia un malessere che, come dice Lazzari, funziona come l’iceberg, in cui tutta una massa rimane invisibile? “Sono stati predisposti dei bandi per l’inserimento degli psicologi nelle scuole ma ad oggi solo sette istituti su dieci si avvalgono di una consulenza psicologica e solo per dodici ore al mese”, rileva il presidente dell’ordine ponendo l’attenzione sulla scuola, e quindi sui giovani, categoria sottoposta a uno stress eccessivo. La realtà italiana però non ha forme concrete, pubbliche e accessibili per aiutare chi accusa un disagio psicologico. Siamo indietro al resto d’Europa e Lazzari lo sottolinea portando l’esempio della Francia, paese in cui i ragazzi fino ai 17 anni dispongono di un bonus statale per dieci sedute dallo psicologo. Gli psicologi però non mancano solo nelle scuole ma anche all’interno dei servizi sanitari pubblici e il dato che riporta Lazzari dovrebbe far pensare: su dieci persone che decidono di avvalersi di sostegno psicologico, otto si rivolgono al privato e questo succede perché nel pubblico non ci sono risorse sufficienti.
I rischi del divario
Questo crea inevitabilmente un divario alimentato anche da un’idea ricorrente per cui solo il cittadino benestante può usufruire del supporto psicologico. E molte persone, che magari non ricorrono affatto alle sedute dallo psicologo o che decidono di farsi aiutare quando arrivano al cosiddetto “punto di non ritorno” tendono a estraniarsi sempre più e non è un caso che nel 2020, in Italia, si sia visto triplicare il consumo di ansiolitici, dato riportato dallo psicoanalista Romano Madera durante la trasmissione radiofonica di Rai radio 3 Uomini e profeti del 6 marzo scorso (ascolta il podcast).
Come riprogettare i piani sociali di zona?
A quanto pare l’Umbria non gode di ottima salute (psicologica). Risulta essere infatti la quarta regione per consumo di psicofarmaci e non vanta di certo un numero sufficiente di psicologi (ad oggi 77 censiti dal Ministero della salute). Proprio per questo il tema del benessere psicologico necessita di un approfondimento. L’associazione Rose rosse d’Europa, presieduta da Valentino Filippetti, propone di riprogettare i piani sociali di zona con particolare attenzione proprio al disagio psicologico. Con questa intenzione ha organizzato un incontro on-line dal titolo Il futuro post-covid. Il piano sociale per il benessere psicologico che si è tenuto il 20 aprile scorso a cui hanno partecipato lo stesso David Lazzari, Massimo Marchino, dirigente del Sert di Orvieto, Angela Bravi, responsabile della sezione salute mentale e dipendenze della regione Umbria, e Donata Francescato, direttrice scientifica della Scuola di specializzazione in psicologia clinica di comunità e psicoterapia presso Aspic (Associazione per lo Sviluppo Psicologico dell’Individuo e della Comunità). A coordinare gli interventi la psicologa Sara Falcone, la quale introducendo il tema, ha subito posto l’attenzione sulle misure concrete da proporre per realizzare un piano di zona evidenziando innanzitutto a chi debba rivolgersi, quindi quali siano le categorie più colpite da disagio psicologico nell’ultimo anno. La lista è lunga e articolata ma i primi destinatari di un intervento psicologico concreto sembrano essere coloro che lavorano nel settore sanitario in toto, gli appartenenti all’esercito, i commessi dei supermercati sempre aperti ma anche i fattorini a cui spesso si è affidata la consegna dei pacchi ordinati da casa; anche gli anziani rientrano nelle categorie maggiormente colpite perché spesso sono stati privati dell’assistenza familiare trovandosi soli e non del tutto coscienti della situazione così come, all’estremo opposto, i giovani, una vasta fascia nella quale rientrano bambini e adolescenti che, in un’età in cui l’interazione è fondamentale non hanno potuto vedere (se non dietro uno schermo) insegnanti e amici, evidenziando stati di nervosismo e panico, fino ad arrivare a depressione dovuta alla solitudine. L’alta attenzione da porre sul benessere psichico è evidenziata, spiega Falcone, anche dall’Oms che nel 2020 ha inserito tra i primi obiettivi per fronteggiare l’emergenza da Covid-19, proprio la salute mentale. Partendo da qui “Rose rosse d’Europa” ha voluto porsi alcune domande: come hanno lavorato i servizi deputati a sostenere la salute mentale da quando è scoppiata la pandemia? Come sono cambiati questi servizi e come lavoreranno per far fronte agli strascichi che sta lasciando l’emergenza da Covid-19?
Anziani: meno assistenza, più morti
Ma tornando alle categorie maggiormente colpite, sicuramente gli anziani meritano una menzione a parte perché hanno pagato il prezzo più alto sulla mortalità. Marchino, oltre al Sert di Orvieto, gestisce anche un ambulatorio di psicogeriatria che, racconta, ha interrotto in maniera quasi totale la sua attività, e come questo tanti altri ambulatori sono stati chiusi, soprattutto durante il primo lockdown, lasciando completamente senza assistenza una categoria molto fragile che spesso soffre di disturbi di decadimento cognitivo (demenza senile) ma anche di depressione. Partendo quindi dal presupposto che passata la fase più critica emergeranno sicuramente le sintomatologie più gravi, bisogna pensare da ora ad un intervento che sia articolato e quindi ben strutturato. Secondo Angela Bravi però gli anziani sono difficili da approcciare direttamente, questo vuol dire che spesso si ha bisogno di intermediari a livello territoriale che possano facilitare il contatto.
Ragazzi e ragazze tra scuola e Dad
Un’altra categoria che tanto ha subito gli effetti negativi della pandemia è quella delle generazioni più giovani. L’area giovanile , spiega Massimo Marchino, è definita come fascia d’età grigia perché si pone al confine tra la neuropsichiatria infantile, la psichiatria degli adulti e la tossicodipendenza. Inoltre è proprio a partire da quest’età che si manifestano psicosi e tossicodipendenza. Per questo settore, secondo Marchino, si potrebbe far riferimento alle belle e virtuose esperienze del Girovento di Foligno e del Sagittario a Terni, realtà che meritano un approfondimento ma anche un allargamento, in modo da poterle replicare nelle zone più periferiche, da sempre più a rischio per il loro fattore dispersivo. Ma prima ancora di arrivare a progetti di comunità terapeutica per i giovani, bisogna passare dalla scuola, il primo posto dove ragazzi e ragazze entrano in contatto. Secondo Bravi proprio la scuola può essere uno dei contesti per creare forme di ascolto e di accoglienza per situazioni di disagio che non giungono ad espressione di patologia e quindi possono trovare soluzione in ambienti diversi che non siano la clinica vera e propria. Tale meccanismo ha però sempre bisogno di una regia ben attenta che nel caso della scuola si deve ricercare nell’insegnante. Fa notare Bravi che l’elemento centrale, per le fasce d’età più giovani, è proprio l’insegnante; quindi si dovrebbe cercare di migliorarne la competenza in questa funzione e di introdurre delle metodologie che aiutino ad affrontare qualunque situazione evitando l’intervento settoriale e in un certo senso slegato. Sul tema della scuola insiste Donata Francescato, portando all’evidenza una di quelle novità che hanno rivoluzionato l’apprendimento: la Dad (didattica a distanza). Secondo Francescato la Dad è profondamente sbagliata perché impone una struttura di insegnamento antiquato in quanto presenta il docente da un lato e i discenti dall’altro i quali hanno l’unico ruolo di ascoltatori nell’immagine di un apprendimento unilaterale. Non è del tutto errato il meccanismo dell’apprendimento on-line ma questo dovrebbe presupporre dei gruppi di discussione partecipati. I ragazzi sono stati sottoposti, secondo Francescato, a pesanti cambiamenti a cui di fatto non hanno partecipato, quindi anche chi dice di stare bene perché mantiene un’apparente normalità, magari non sta affatto bene. Un aiuto concreto può essere quello di far parlare questi ragazzi e ragazze e i gruppi on-line in tal senso possono funzionare bene a patto che si dia un tempo di due o tre minuti ad ogni ragazzo per potersi esprimere e raccontare, dice Francescato. D’accordo con Bravi ribadisce che gli educatori hanno bisogno di una formazione mirata per poter organizzare questo tipo di “aggregazioni” e propone che sia la Regione ad educare dei facilitatori che possano gestire dei piccoli gruppi on line.
Psicologia sociale
Ma il problema tutto italiano è non avere una risposta adeguata a questo tipo di criticità. “In altri paesi – spiega Lazzari – c’è stato un uso sociale della psicologia, cioè è stata creata una rete che potenzia sensibilmente l’intervento psicologico, il che significa che sono state inserite delle infrastrutture nella scuola, nei servizi sanitari e sociali, in quelli lavorativi. L’Italia invece ha psicologi solo in sanità e molto pochi perché se ne calcolano uno ogni 12.000 abitanti con una media sulla sanità europea di uno ogni 2005”. Queste figure professionali ricoprono poi un’ampia gamma di ruoli che spazia dal disagio fino alle dipendenze e dal momento che il numero è insufficiente diventa ovviamente problematico agire. Insufficienza che salta all’occhio nelle scuole italiane dove, fa notare Lazzari, si dispone di una copertura psicologica pari solo al 20% quando gli istituti degli altri paesi europei usufruiscono di un supporto psicologico al 100%. Nella pratica, in Italia il disagio psicologico non ha una risposta pubblica. Lazzari però spiega anche che è stato stilato un protocollo con l’Anci proprio per ragionare sulla presenza delle competenze psicologiche sul territorio. Di recente invece è stato fatto anche un primo provvedimento nella scuola che ha inserito degli psicologi ma resta evidente che l’Italia ha bisogno di rilanciare le sue infrastrutture sociali che da sempre sono viste come una spesa e non come una risorsa.
L’approccio bio-psico-sociale applicato alla comunità territoriale
Ma un uso sociale della psicologia presuppone che anche in campo medico vi sia un approccio diverso e innovativo, un cambio di prospettiva che Marchino definisce bio-psico-sociale, approccio che però attualmente manca, perché spiega il responsabile del Sert “in genere prevale quello anatomo-clinico che è importante ma non indispensabile perché bisogna allargare gli orizzonti”. Nella pratica, è necessario che quello che già è presente sul territorio, come gli ambulatori, vengano messi a sistema così che gli interventi possano diventare massimamente organici per un’assistenza più capillare. “La Regione ha istituito un corso che si basa proprio sull’approccio bio-psico-sociale. Il tema è stato introdotto da tempo ma non ha avuto mai un seguito nella pratica perché ogni medico rimane ancorato al suo metodo, quindi al suo ambito di pertinenza. Invece è il momento giusto per fare anche dei discorsi teorici in questo senso dove le persone si confrontano su questi diversi approcci per modulare una sintesi finale” dice Marchino. Il tipo di approccio bio-psico-sociale è ripreso anche da Angela Bravi che lo sviluppa in chiave di comunità territoriale. Questo per Bravi significa spostare inevitabilmente l’attenzione dall’individuo alla comunità che gli fa da cornice. Il tema della comunità è un aspetto fondamentale che adesso ha una sua evidenza ma, fa notare la responsabile del settore salute mentale della Regione, già prima del Covid si assisteva allo sgretolarsi delle relazioni sociali, mentre adesso con la pandemia la questione assume un aspetto ambivalente perché da un lato ci si vede precipitare nell’isolamento e dall’altro si comprende l’importanza delle reti sociali. Dal momento che la maggior parte dei problemi, ma anche delle risorse, stanno nel territorio, secondo Bravi bisogna applicare un approccio di comunità, creare delle reti di territorio. Questo nella pratica significa riprendere dei percorsi di integrazione socio-sanitaria iniziati tempo fa, quindi riprendere una co-progettazione e una co-partecipazione nelle attività. “C’è poi da coinvolgere il mondo associativo con la cittadinanza attiva” spiega Angela Bravi, che aggiunge: “Qualche anno fa cominciammo un’esperienza con il Centro servizi giovani di Perugia con l’idea di valorizzare il protagonismo di ragazze e ragazzi. Convocammo una prima riunione in cui ci trovammo con cinquanta persone – mentre ce ne aspettavamo meno della metà – tra cui una buona parte erano referenti delle associazioni giovanili territoriali, quindi è evidente che c’è una ricchezza che nasce al di fuori delle nostre porte e che dobbiamo assolutamente conoscere, coinvolgere e ascoltare”. Quindi, conclude Bravi “ci dev’essere un’azione di livello sociale che costruisca contesti diversi ma favorevoli a un certo tipo di promozione di benessere e salute. Che ben venga un approccio universalistico, cioè di diffusione delle azioni che raggiungano maggior persone possibili, ma attenzione alle disuguaglianze; bisogna introdurre accorgimenti che consentano la possibilità di accesso anche a chi ha più difficoltà e meno strumenti che renderebbero difficile l’accesso ad opportunità presenti”.
Creare una cultura psicologica partendo dalla promozione della psicologia
Tutto questo ragionamento si inserisce in un processo che dovrebbe portare ad una collaborazione tra pubblico e privato, quindi verso una valorizzazione del terzo settore. Anche nel Recovery plan, secondo Lazzari, c’è lo spirito di valorizzare le risorse del territorio però c’è anche la necessità di rilanciare quello che è lo specifico di intervento sociale e di comunità. Il tutto serve per dare risorse alla popolazione e quindi si tratta di una risposta di promozione che possa dare strumenti alle persone. “In molte situazioni è evidente come sia efficiente l’intervento psicoterapico rispetto a quello farmacologico perché ristruttura e dà all’individuo un’autonomia, cosa che il solo intervento farmacologico non garantisce”, sottolinea Lazzari. È necessario quindi creare quello che Lazzari definisce un welfare di prossimità. Il servizio sociale ha bisogno di una riforma tanto quanto quello sanitario, in un’accezione che sia finalmente proattiva così da poter rispondere ai bisogni facendo un lavoro di promozione, che poi secondo il presidente degli psicologi è la base della professione psicologica. È il caso di recuperare l’uso pubblico della psicologia anche perché ad oggi l’80% degli interventi psicologici è privato il che ha creato una forte discriminazione tra chi può permetterselo e chi no. Ma passare da una logica assistenziale ad una di promozione proattiva significa anche non ridurre la psicologia a mera terapia, che quindi interviene quando bisogna trattare il caso clinico. Ma chi si occupa di fare prevenzione e promozione psicologica? Lazzari spiega che tale compito spetta al pubblico all’interno di una progettualità con il terzo settore perché è chiaro che l’individuo da solo non può riuscirci. Oggi abbiamo davvero bisogno di toccare l’argomento con insistenza perché i tempi sono cambiati, i bisogni sono cambiati e anche il modo di approcciarsi ad essi. Viviamo in un mondo sensibilmente complesso ed è per questo che è arrivato il momento di creare una cultura psicologica.
Psicologia scolastica per educare alla vita
Per concludere usando le parole del presidente dell’ordine degli psicologi: “La psicologia si occupa della vita psichica, di tutto ciò che ci rende persone, per questo sta al centro” ed è per questo che bisognerebbe parlare di più dei disturbi psichici, sfatandone il tabù che rende problematico un uso sociale della psicologia e si dovrebbe fare prevenzione psicologica partendo proprio dalle scuole facendo uno sforzo di concentrazione sulle giovani generazioni che risentono maggiormente questo tipo di traumi con la consapevolezza che se non si interviene preventivamente è più facile che le situazioni peggiorino fino a degenerare. Per riprendere ancora le parole di Lazzari: “sembra necessaria una psicologia scolastica, strutturata, diffusa, presente e che deve aiutare la scuola a riappropriarsi del suo ruolo che non è solo un ruolo di apprendimento rispetto a contenuti, ma di educazione alla vita, di crescita psicologica”.