Ho marciato per la pace da Perugia ad Assisi, domenica 24 aprile. Era tanto che non manifestavo camminando. Il camminare non è secondario. Negli ultimi tempi sono stati solo sit-in e flash mob, modalità diverse dal corteo che abbraccia un percorso, in questo caso un territorio, addirittura. Il corteo, la marcia, sono come il fiume che lambisce sponde che stanno a chilometri di distanza da dove si è originato. È una maniera per dire noi ci siamo e di amplificarlo nel più ampio modo possibile. Siamo stati in tanti e tante a scegliere di farlo, impossibile dire quanti e quante. Sta di fatto che se ti capitava di fermarti durante il percorso per riempire la borraccia o mangiare un panino constatavi che il flusso non finiva mai e non riuscivi a vedere né la testa né la coda. Ma non è l’autoelogio del manifestante che intendo fare qui. Tutt’altro. Vorrei che si solidifichino scrivendo note a margine che per 48 ore sono state un flusso, e vorrei porre domande le cui risposte sono quasi inespugnabili, almeno per me.
1) Una premessa. Non ricorrerò alla contrapposizione destra-sinistra. So che per molte persone quello che sto per scrivere apparirà come una bestemmia, ma non lo farò poiché quello mi pare sia rimasto poco più di un posizionamento geografico, utilizzato in maniera inerziale, quindi fuori tempo, quindi difficile da digerire per l’ultimo paio di generazioni che si sono affacciate all’età matura. Per di più, per molti di quelli che vi ricorrono, è un alibi inconsapevole che consente di non esplicitare fino in fondo neanche a se stessi che cosa significhi stare da una parte o dall’altra.
2) Ciò non significa che stiamo dentro una marmellata indistinguibile. Anzi. Durante la marcia ho constatato che, nonostante tutto l’arco parlamentare sia formalmente per la pace, in cammino da Perugia ad Assisi si sono messe in maniera quasi esclusiva persone di un certo tipo, seppure diversissime, il cui minimo comune denominatore può essere rinvenuto nel porre l’egualitarismo come premessa della libertà. Questo significa più nello specifico tendere all’orizzontalità dei rapporti, e ciò cozza contro rituali e liturgie politiche che nel corso del tempo hanno fagocitato dentro le loro logiche, sterilizzandole, le ragioni della rappresentanza politica di questa parte. Che è uno dei motivi per cui risulta difficile oggi ricorrere sic et simpliciter alla contrapposizione destra-sinistra senza essere guardati come marziani da chi ha dai trenta-quarant’anni in giù. Durante la marcia sono stati scanditi slogan e vergate scritte sui muri contro la Nato, si è fischiettata l’Internazionale e strimpellato De Andrè, cantore dei diseredati per eccellenza, sono stati incollati sui muri slogan satirici nei confronti di amministratori delegati di multinazionali, si vendevano magliette con scritto “più diritti per tutti”, sono stati distribuiti volantini da chi proponeva «l’esperanto come modello di relazioni paritarie e di fratellanza». Non si sono visti né sentiti invece slogan con la parola «nazione» dentro, né guaiti contro il reddito di cittadinanza, né inviti a rifugiarsi nel sovranismo, né cartelli per la flat tax.
3) Il punto è che dei primi aneliti non si scorge praticamente traccia nella politica istituzionale; essi vengono disprezzati dai sovranisti di vari colori e dai realisti neoliberali, e scrollati con un’alzatina di spalle da parte dei rappresentanti della sinistra che fu, che li considerano, dentro di sé ancor prima di esplicitarlo, come eccessivi da porre all’interno del gioco istituzionale, che infatti rimane egemonizzato dai secondi.
4) La traduzione di questa poltiglia di ragioni è che la leva per un percorso evolutivo nei rapporti tra gli umani starebbe in quel magma di idee e persone che compone il minimo comune denominatore che fa dell’egualitarismo e di tutto ciò che ne consegue in termini di orizzontalità dei rapporti una premessa dell’esercizio pieno, compiuto e consapevole della libertà: è quel minimo comune denominatore che si è messo in marcia per invocare la pace; le persone che tendono a conservare, a rifugiarsi dentro l’idea di nazione o di sovranismo che dir si voglia, o di realismo neoliberale, domenica 24 aprile sono rimaste a casa.
5) Fatta questa prima rilevazione però, non si può prescindere dal fatto che dentro quel minimo comune denominatore che ha consentito di marciare fianco a fianco ci sono spinte anche assai diverse, al limite del divaricante. E questo pone un primo problema di azione nella contingenza. Perché c’è un po’ di ragione sia in chi sostiene che occorre armare la resistenza ucraina contro l’invasore russo, sia in chi preme per dire che la pace non si fa con le armi. Bisogna riconoscerselo a vicenda, evitando di ricorrere ad argomenti e pratiche da Santa inquisizione. La complicazione ulteriore sta nel fatto che siamo chiamati e chiamate ad agire qui e ora, perché la guerra è adesso, e oltre alle persone fa strame pure delle sfumature.
6) L’emergenza disumana nella quale ci troviamo è però anche frutto proprio dell’evaporazione di quella rappresentanza istituzionale cui accennavo sopra. Da decenni il posizionamento atlantico non solo non è messo in discussione, ma non si trova neanche la forza per spostarne minimamente gli equilibri. E nella geopolitica che continua da secoli a girare attorno all’idea di potenza imperialista ci troviamo malissimo, noi, marciatori della pace: è come se tentassimo di giocare a scopone mentre le regole del tavolo sono quelle del tressette; non abbiamo voce, sebbene ci troviamo in tantissime e tantissime a camminare per dire noi ci siamo. Evidentemente non basta, non è mai bastato.
7) Questa gassificazione della rappresentanza istituzionale che mi ha portato a considerare una zavorra la stessa evocazione della categoria di sinistra è la stessa che personalmente mi ha condotto a riconsiderare il punto di osservazione (e di azione) nel quale posizionarsi. A scorgere cioè un pulviscolo quanto mai significativo. Ci sono una serie di pratiche che sono venute maturando regolarmente, criticamente, e pure, se vogliamo, inconsapevolmente, al di fuori della rappresentanza istituzionale, e che invece sono politica in senso stretto. Rigenerazioni urbane, esperienze di mutualismo, partecipazioni alla gestione di beni comuni, librerie e cinema indipendenti, imprese di comunità, luoghi di socialità, cultura e consumo critico, comunità energetiche rinnovabili, pezzi di stampa, comitati locali. Sono politica perché agiscono dentro le città e nei territori, ne modificano i rapporti, sono trasformative per statuto, e incidono nella vita delle persone, in meglio.
8) Considero questo crogiuolo pulviscolare la via d’uscita dal Novecento delle grandi organizzazioni dei corpi intermedi che hanno perso consistenza e vitalità, ancorché in vita. Come il movimento cooperativo fu la risposta mutualistica ai bisogni dei subordinati e accompagnò la costituzione del movimento operaio, queste esperienze mi paiono se non altro un tentativo di reazione all’omologazione spersonalizzante imperniata sull’idea di profitto che ha rotto gli argini dell’economia e sta tentando di farsi totalizzante (riuscendoci). Ciò a fronte della sclerotizzazione della (fu) rappresentanza istituzionale.
9) Quando mi è capitato di parlare o scrivere di questo, in pubblico e in privato, sono incappato in sorpresa, spiazzamento, quando non nel disagio con cui si guardano gli apostati, a volte. Mi si è opposto che è necessaria la sintesi, che tradotto, significa che è impensabile di agire politicamente senza un partito, senza l’orizzonte istituzionale. Il livello nazionale e sovranazionale e la difficoltà nel trovarvi cittadinanza per queste esperienze mi confermano che c’è una parte di ragione in ciò. Infatti il minimo comune denominatore che domenica 24 aprile si è messo in marcia e che era composto in parte di questo popolo variegato rimane senza voce.
10) Marciando domenica però, ho pensato che se l’enorme pulviscolo che ha sciamato da Perugia ad Assisi non è sufficiente a modificare lo stato di cose presenti, lo è tanto quanto una rappresentanza istituzionale ormai vuota, tanto da poterne parlare al passato remoto: fu. E che se ci sarà una risposta all’altezza della sfida, essa non potrà prescindere dal pulviscolo vitale. Si comporrà questo pulviscolo? Deve ricomporsi? E semmai come? Non c’è il rischio che facendolo venga istituzionalizzato, e quindi fagocitato? Non c’è forse una inconciliabilità tra il pulviscolo e l’istituzione, che è benefica perché portatrice di radicale alterità, ma inefficace a livelli differenti da quelli che non siano micro? In sostanza, può l’alito imprescindibile di questa alterità diventare voce? Eccole le domande con risposte che paiono inespugnabili, oggi, qui.