Lo scorso 23 aprile il Corriere dell’Umbria ha pubblicato alcuni dati derivanti da uno studio dell’Aci. Il titolo dell’articolo metteva in evidenza come la E45 fosse «la strada più pericolosa della regione» dal momento che vi sono stati rilevati nel 2020 71 incidenti sul totale dei 517 verificatisi in Umbria. Secondo lo stesso studio riportato nell’articolo, in dieci arterie, tutte statali, si sarebbero riscontrati «quasi i due terzi degli incidenti registrati in tutta la regione» che avrebbero provocato a loro volta più della metà dei decessi (13 su 20). Due giorni più tardi lo stesso quotidiano ha intervistato il presidente dell’Aci regionale, Ruggero Campi, titolando di nuovo sulla E45, che essendo «la strada più pericolosa dell’Umbria» necessiterebbe di una corsia d’emergenza e di corsie più ampie. Ovviamente, più manutenzione si fa sulle strade, meglio è. Ma il punto vero è che quelle cifre descrivono una realtà del tutto parziale e contribuiscono a consolidare un immaginario falsato, secondo il quale gli incidenti avverrebbero quasi solo su autostrade o superstrade, il che dà luogo a sua volta falsi alibi e a politiche della mobilità del tutto inefficaci.
Secondo i dati forniti dall’Istat, gli incidenti sulle strade in Umbria nel 2020 sono stati 1.699, quindi molti di più di quelli rilevati dallo studio dell’Aci; le morti sono state 45 e i feriti 2.268. Gli incidenti e i decessi che si sono registrati sulle dieci strade «da bollino rosso» secondo lo studio dell’Aci, sono quindi una percentuale assai inferiore a quella prospettata. Ma il dato più interessante da rilevare, ai fini della comprensione del fenomeno, è che 1.126 incidenti, cioè il 66 per cento del totale rilevato in Umbria, sono avvenuti all’interno delle città. Qui sono stati investiti e uccisi 9 pedoni, sono morte complessivamente 27 persone e ne sono rimaste ferite 1.415. A proposito di pedoni investiti, complessivamente sono stati 202, il che significa che più di un incidente su dieci di quelli registrati in Umbria vede coinvolte persone che viaggiano a piedi.
La sicurezza stradale è insomma un problema in massima parte cittadino, e del resto, dei circa 8.500 chilometri di strade umbre, oltre la metà sono in ambito comunale. Questo consiglierebbe di puntare, appunto, su politiche della mobilità e della sicurezza conseguenti in prima battuta all’interno dei centri abitati. Tanti incidenti sulle strade comunali significano che una immensa mole di spostamenti viene fatta su mezzi privati e su strade non all’altezza di sopportarli in maniera da garantire la sicurezza; significano emissioni inquinanti che spesso superano il limite consentito; e significano, infine, politiche della mobilità sostanzialmente basate su una privatizzazione non dichiarata, con amministrazioni locali che scaricano sui cittadini costi economici e ambientali e disservizi che potrebbero essere alleviati con pianificazioni stradali, urbanistiche e di trasporto pubblico all’altezza della situazione. Non è un caso forse che in questa regione, sempre secondo l’Istat, al 2020 circolavano 646.746 auto quando la popolazione oltre i diciotto anni è di 739 mila persone, over 90 inclusi.
Se l’immaginario collettivo continua però a essere nutrito di dati fuorvianti, è difficile anche che le politiche cambino. È una questione squisitamente di democrazia. E se sono solo le strade extraurbane a essere dipinte come pericolose, e soprattutto si insiste sulla pericolosità delle infrastrutture, si fornisce indirettamente anche un alibi a comportamenti scriteriati. Dei 118.298 incidenti registrati in Italia nel 2020, oltre centomila, quindi la stragrande maggioranza, si sono verificati in giorni di tempo sereno e su strade asciutte; solo in 712 casi, gli incidenti sono avvenuti su strade dissestate. Ancora: in 76.432 occasioni (i due terzi del totale) la responsabilità è stata addebitata al conducente: distrazione, mancato rispetto delle distanze di sicurezza ed eccesso di velocità le cause ricorrenti. E nei 2.395 casi di morti provocate dagli incidenti, 1.173 volte la responsabilità è stata del conducente. Le categorie più pericolose sono quelle dei maschi tra i 30 e i 44 anni e di quelli che hanno superato i 65: a loro sono stati dovuti oltre 500 morti e poco meno di ventimila ferimenti sulle strade nel 2020. Si capisce che metterla così è diverso dal fare la classifica delle strade pericolose.
La mancata messa a fuoco del problema e le conseguenti inefficaci politiche pubbliche da un lato, e dall’altro il dito puntato sulla pericolosità delle strade piuttosto che sui comportamenti delle persone al volante sono sorretti dalla sostanziale accettazione di un modello basato sull’auto, che non è solo una questione di mobilità, ma più in generale di vita precaria, multitasking, stressata, che eleva a esempio chi corre e va veloce, e ha fatto della lentezza un disvalore. E anche in questo caso c’è di mezzo l’immaginario collettivo, distorto con una coerenza micidiale, che fa apparire congruo ciò che non lo è. Così tutto si tiene: gli incidenti avvengono a causa delle strade, cioè di manufatti inanimati; le politiche per la mobilità vengono confuse con quelle infrastrutturali; l’auto è sinonimo di comodità perché ci consente di agire velocemente e quindi di fare di più, anche se non è ben chiaro a che scopo e per chi; e gli amministratori sono esentati da responsabilità che invece sarebbero le loro. E la E45 diventa la strada più pericolosa, anche se è di tutta evidenza che non è così.