Nel Documento di economia e finanza regionale (Defr) 2018-2020 proposto dalla Giunta regionale allora in carica, approvato dal Consiglio e pubblicato nel Bollettino ufficiale il 17 gennaio 2018 si leggeva che si sarebbero utilizzati i fondi strutturali dell’Ue per «incidere sulla dimensione aziendale, sull’internazionalizzazione, sull’innovazione in tutti i settori produttivi, per accrescere la qualità dell’agricoltura e posizionare l’immagine turistica della regione». Un anno dopo, nel 2019, stavolta il 2 gennaio, nel Bollettino ufficiale che riportava il Defr 2019-2021 appena approvato dal Consiglio su proposta della Giunta regionale si leggeva che si sarebbero utilizzati i fondi strutturali dell’Ue per «incidere sulla dimensione aziendale, sull’internazionalizzazione, sull’innovazione in tutti i settori produttivi, per accrescere la qualità dell’agricoltura e posizionare l’immagine turistica della regione». Non è un errore di battitura, è esattamente la stessa formulazione utilizzata in due documenti differenti a un anno di distanza. Nel 2020 era cambiato il colore politico della maggioranza che governava – e tuttora governa – l’Umbria, e nel documento di programmazione approvato per il 2020-2022 si leggeva che una parte consistente dei fondi comunitari sarebbero stati utilizzati per la «creazione di start up; imprese culturali e creative; l’attivazione di strumenti finanziari per le imprese; la promozione turistica e l’assistenza tecnica (ovviamente alle imprese, ndr)». Le citazioni potrebbero continuare, ma quelle che avete appena letto sono ampiamente sufficienti a testimoniare come la centralità dell’impresa privata sia la musica di fondo che si ode in questa regione ormai da lustri. I cambiamenti di maggioranza che hanno caratterizzato l’Umbria, ancorché salutati quasi unanimemente come pressoché rivoluzionari, non hanno minimamente inciso sull’approccio. Si tratta di una attitudine che poggia sulla convinzione che la ricchezza venga generata dalle imprese private, al cui stato di salute è quindi da ricondurre quello dell’intera società. Un’equazione apparentemente di buon senso, che come si vede non viene messa in discussione dalla destra oggi come non lo fu dalla sinistra ieri, e neanche dai corpi sociali variamente intesi. Il problema è che se già in assoluto si possono nutrire dubbi su un’impostazione in cui covano germi di messianismo totalitario (c’è un uno al quale deve conformarsi il tutto), essa è del tutto disconnessa dalla realtà in Umbria.
Nei giorni scorsi l’Agenzia Umbria ricerche (Aur) ha divulgato la sua Relazione economico-sociale che già dal titolo accenna a una incrinatura: «Dalla pandemia alla guerra: l’Umbria tra segnali di ripresa e instabilità globale». Ma non sono la pandemia o la guerra a rendere l’Umbria fragile, e neanche l’instabilità globale, bensì un fenomeno che a scriverlo si rischia di essere imputati per lesa maestà: è la debolezza del tessuto imprenditoriale regionale, l’inadeguatezza dell’impresa privata umbra nel suo complesso. Un problema che peggiora in maniera direttamente proporzionale alla fiducia che le classi politiche, e la società, hanno riposto e continuano a riporre in quel sistema e alle (tante) risorse pubbliche che gli hanno affidato e gli continuano ad affidare in attesa di una trasformazione che come Godot non arriva mai. Nella relazione dell’Aur è contenuto un dato sintomatico, che va risalito come un fiume per arrivare all’origine. Il dato è questo: delle persone disoccupate in Umbria, una su quattro è laureata. Si tratta dell’incidenza più alta in Italia. Questo ci dice che il sistema delle imprese private è impreparato ad assorbire forza lavoro qualificata, e ciò ha una serie di premesse e di conseguenze, non è una questione isolata; anzi: sta diventando una questione sociale a tutto tondo, che ha come effetti macroscopici lo spopolamento di intere zone della regione e il suo invecchiamento. In entrambi i casi si tratta di fenomeni più marcati rispetto alle tendenze nazionali.
Da dove arriva il dato sulla scarsa propensione delle imprese umbre ad assumere persone qualificate? Si può azzardare qualche risposta. Nel 2018 in Umbria sono stati spesi in media 7.300 euro per addetto in innovazione, mentre la media italiana è stata di 9 mila. Nel 2019, della spesa totale in ricerca e sviluppo fatta in Umbria, solo il 46,8 per cento arrivava da imprese private; a livello nazionale l’incidenza di investimenti privati in ricerca e sviluppo è pari al 63 per cento. E il numero medio di addetti che il sistema delle imprese umbre con più di dieci dipendenti dedica alla ricerca è circa la metà rispetto al dato nazionale. Tutto questo si traduce nei risultati delle imprese. Il fatturato medio delle aziende private umbre è stato nel 2018 di 524 mila euro; quello medio italiano di 691 mila euro. Per avere un’idea più completa, la prima regione in questa particolare classifica è la Lombardia, con un fatturato medio per impresa di 987 mila euro, l’ultima è la Calabria con 266 mila euro. L’Umbria è tredicesima, ma al di là di questo il suo dato è di gran lunga più vicino a quello della Calabria che della Lombardia.
Sono numero impietosi. Tanto più impietosi se si considerano le risorse e la considerazione che le amministrazioni regionali dedicano da tempo al sistema delle imprese private. Le quali finiscono sui giornali quando lamentano di non trovare manodopera, non per la loro incapacità intrinseca di stare nella competizione in cui hanno scelto di stare; e neanche per la loro attitudine a scaricare sui bassi salari e sui bassi profili cercati la loro inadeguatezza a collocarsi su livelli delle filiere più interessanti, innovativi e creatori di valore.
Al di là della necessaria messa in stato d’accusa del sistema delle imprese, quello che apparirebbe necessario a guardare questi dati sarebbe un cambio di strategia complessiva che però non si riesce a minimamente scorgere. Anzi. Dagli ex comunisti che si sono sentiti in dovere di farsi perdonare quello che hanno considerato dall’89 in poi un peccato originale, alla destra attualmente al governo in Regione, che fa dell’impresa privata l’ombelico del proprio agire, non c’è nessuno che riesca a sfuggire dalla trappola del pensiero unico della centralità dell’impresa privata, anche quando quel sistema è palesemente inadeguato. E dire che l’economista Mariana Mazzuccato ha dato alle stampe il suo prezioso Lo Stato innovatore ormai otto anni fa, dimostrando come il settore pubblico sia alla base di gran parte delle innovazioni di cui ci gioviamo, e argomentando come solo un settore pubblico efficiente e guidato da interessi che vadano al di là del profitto qui e ora è in grado di programmare investimenti in grado di generare poi ricadute positive su tutto il tessuto socio-economico. Tutto questo, valido a livello generale, sarebbe ancor più utile in una regione come questa, dove l’impresa privata nel suo complesso eccelle in arretratezza. E dove però, quando si richiama a un rinnovato ruolo del settore pubblico, si viene schiacciati nella semplificazione comoda quanto puerile e squalificante di chi perseguirebbe pianificazioni o nazionalizzazioni arcaiche. Il risultato è che in Italia ci sono otto centri di competenza ad alta specializzazione finanziati dal ministero dello Sviluppo economico: hanno lo scopo di incubare e disseminare innovazione nei territori con risorse pubbliche, e nessuno sta in Umbria. Il Friuli Venezia Giulia ha un suo sistema scientifico e dell’innovazione più o meno con la stessa vocazione. In Umbria no. Nonostante l’impietosità dei dati, si continua a far piovere risorse su realtà che non investono in innovazione, assumono profili medio-bassi e, quando possibile, si fanno intervistare perché non trovano manodopera.